Resti di scena

Materiali oltre lo spettacolo

di Paolo Ruffini 

         

Masque teatro

 

 

Se la verità non è che dogma.

L'istituto l’ha detto chiaramente. Non interessano le storie melense e sdrucite delle tragedie grecoshakespeariane, né tantomeno quelle dipinte di ricerca dialettalpopolare. Quello che conta è il superamento dell'oltraggio della finzione. Sulla stessa barca sembra invocare il nocchiero Adele. Tutti pronti a traghettarsi al di là del Marecchia Stige.

Nelle circostanze avverse il pensiero naufraga. Sospeso, inerte, esso viene lacerato costantemente da un presente ignaro del sé e dell'altro. Rifugio delle tentazioni, si ribella alla legge di una scrittura vuota.

Come nausea alla peste che da lui trasuda, il vuoto mentore della leggerezza si perde, accatastato Minotauro dell'esistenza. Risalire quelle scale vuote, diverse volte. Volgere lo sguardo alla lente biconvessa. Immaginare l'altro da sé rimirare attraverso e rispondere alla domanda che ha in quel luogo il senso dell'identificazione. Aspettare tempi duraturi per coloro che sono lì ad aspettarti.

Gruppi di umani sfiorano le colonne di Tannhauser e si porgono guancia contro guancia per illuminare notti scadenti. "Poverino", lancia la vecchia danzatrice al capo coro, che, affaticato, non porge più l'ugola al lamento!

Eppure sono lì, pronti a cogliere l'incerto afflato della perdita del padre. Forse loro maestro. Nel risalire quelle scale ritorna il pensiero alle inviolate sfide dei sei giovani ragazzi che in circolo ritrovarono la voce del parente per crescere come pelle di tamburo. Eppure lui non conosce ciò che gli sta a cuore e cerca disperatamente di infilare le perle che Cassandra gli porge. Si dispera povero Bacon là nella sua tomba mortale. E salta su a strofinare il muso contro la terra se la netta superficie che accoglie la sua luce rifiuta quel dono. Immondezzaio del mondo, prepara sotto il suo tetto le lacrime amare della vedova. Leggera è pure la sua voglia, desiderio di liquido amniotico, che nella giusta domenica estiva diventi, lui dichiara, lacrima come succo acido di cipolla. Si sale, uno ad uno. Col libretto rosso in mano a tentare le ricette della visione. Scriva: il mio nome è...Tutto è stato predisposto: le mani di bronzo fuse per l'approccio cadenzano il ritmo della novella danza. Siamo lì ad aspettare che lei risolva l'enigma di una scrittura troppo confusa. Un dottore pronto ad aiutarla. Protesi di pensiero applica alla fronte.

Di lei, di tutti. Nella descrizione di ciò che accade, il luogo accetta l' intruso; anzi lo divora.

Nel riflettere sul proprio percorso artistico si riprende dallo shock e infilza rapidamente tre chiodi nella schiena, ignara? o ignari del loro destino. Se comprende lo spazio che lo circonda, ne vede la forma. Scarabocchi sulla terra da fonderia.

Nera come la pece una scrittura incerta tra la chiarezza e la banalità. Da quell' otto aprile del millenovecentonovantaquattro tra i rami rossi di una fascina cadente, l'urlo del beginner si innalza a dichiarar la propria pretesa. Stanchi nocchieri si rifugiano su terre alte per non sentire, e chi potrebbe dir non giuste le loro lamentele. Tranquilli ragazzi, perché oramai tutto è segnato. Si affannano, oltre il fiume, a definir le brave strategie, anche se del mostro posson porger la difesa che solo l'Odisseo sapea. Nessuno, è il grido che si lancia, nessuno è il numero di chi sinceramente crede. Oramai tutto è perduto quando nella terra nuda il re si dispera. Sulla tavola imbandita le otto figurine sono in attesa. Eric ha per loro disegnato giusti sgabelli e dell'istituto han già pagato i balzelli. Come sono belli. Lì, a recitare le loro litanie, otto allievi e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar. Che cosa ci si può aspettare da colui che sente l'alito di chi lo condanna alla creazione. Un dio del dio? Fragile destino il suo. Commovente la scena o lo strazio. Trita parole sul palco, mitraglia l'offesa di un corpo esausto e mai pronto alla battaglia che appare, lì, allo spettatore, finto e bislacco. Asinello sulla scala di un perduto amore, dell'antico Egitto, o era la Grecia antica? Poco importa se lo spettator non lo coglie! Della lezione dell'uomo barbuto son pochi oramai a descriver le giuste movenze. Occhio nell'occhio o spillone nel culo. Non parlar male, lei lo sgrida con fare sapiente, mentre il sipario si chiude tra l'eroe e la gente.

(Applausi)

Un albero porge i suoi rami al terreno. Cruentazione è l'efflusso del sangue dalla ferita.

E nell'incontrar fortuito la sua preda, è Diana o Atteone a decider la sorte dell'ingenuo montone? Est qui libre? Equilibre. Sulfureo gesto, il morir mi piace in codesto mare. Corri nel tunnel mio modesto amico, rimbalza la figura ed alza la testa. Chi sorride non cade. Sul pavimento di quella cucina in via Bligny. Era una fredda giornata di gennaio. L'uomo curvo sulla piastrella, la testa immersa, per quello che glielo permetteva l'augusto recipiente. Il corpo perdeva il giusto colore, il bianco del caolino lasciava il posto al bianco del lanolino. La pentola dell'acqua calda sul fornello. Mi raccomando, ragazzi, mai lamentarsi, mai! Abbiam pur da vivere anche noi!

È certo che tutto sta cambiando, al ramo rosso c'è ora l'acqua calda. Come era bello allora, ti ricordi?

Hanno cercato di non far morire un teatro che li aveva accolti, poveri cari. Dalla tecnica precoce, l'Enrico mostrava i dentini. Già da piccolo svitava i bulloncini! E la torre cadeva con ella sospesa, il braccio dolea, ma che importa se i capelli avean rasi in quel luogo distesi. Oh poverini! E gli amici che nel mentre ridean, di prototipo godean.

Il percorso dello scapolo ha quindi termine nei testimoni oculisti, dove le contraddizioni della sua psiche saranno risolte, dopo essere state accentuate. Da qui il gas è testimone della messa a nudo della sposa, e raggiunge, eventualmente il suo regno, anche se soltanto sotto forma di immagine riflessa.

Est­qui libre? Equilibre!

Ritorno dal passato: si riaffacciano gli spettri dell'inconsistenza. E la lucidità dell'informazione, che mi trapassi se mai più la concederò.

Umiliante fardello di scemenze se nel familar stanger non riusciamo a cogliere neppure lo scarno invito al ripensamento, eppur qualcuno scrive…» .

Bazzocchi Lorenzo e Gatelli Catia,

Se la verità non è che dogma

inedito, 2004

 

 

 

Se questa scena riesce, non si sarà forse visto mai in teatro
cosa più grande e più patetica.
Ma quante braccia e quanti anni ci vorrebbero,
anche se lo spirito fosse pronto!
Willelm Goethe, Viaggio in Italia

 

 

 

 

«Omaggio a Nikola Tesla ­ lightning poem.

In L'Antiedipo, Deleuze e Guattary scelgono lo "schizo" come eroe della modernità. Lo schizo è totalmente svincolato dalle logiche radicate nel nostro sentire sociale, svincolato dalla logica della domanda e dell'offerta. Ecco il Don Quijote. Ecco Nikola Tesla. Ma con un fulmine in mano. A Colorado Spring nel 1898, Tesla riesce a mettere a punto il cosiddetto Trasformatore di ingrandimento: l'idea, poi realizzatasi, è quella di costruire un trasmettitore di onde, che lui definì stazionarie, in grado di trasmettere segnali attraverso la terra fino all'altra estremità del globo e quindi di poter trasmettere anche potenza elettrica senza fili.

Dunque, Tesla si trasferì a Colorado Springs ed iniziò a lavorare. Avvenivano cose inspiegabili nei dintorni... strane scariche elettriche: se qualcuno camminava nelle vicinanze, le scintille schizzavano fuori dalla terra e risalivano su per i piedi, attraversando le suole delle scarpe. Un giorno un ragazzo prese un cacciavite, lo mise vicino ad un estintore, e dalla pompa uscì una scintilla di quattro pollici!" A volte, l'erba intorno al laboratorio era talmente elettrizzata da provocare un effetto a corona: vengono chiamati i "fuochi di sant'Elmo"2!

Ma la gente non sapeva che quello era solo un gioco da ragazzi! L'uomo del laboratorio stava semplicemente mettendo a punto il suo strumento, preparandosi a fare di quell'esperimento uno dei più grandi e spettacolari di tutti i tempi.

È proprio con quell'idea che riuscì a battere il record del fulmine più lungo mai prodotto dall'uomo: 42 metri di lunghezza (130 piedi) eppure era roba di poco conto!

È consuetudine per il teatro fagocitare e rilasciare per avventurarsi in nuove creazioni.

Nikola Tesla ci ha detto: "fermatevi", e noi ci siamo fermati, o meglio abbiamo continuato ad approfondire e definire quello che da lui emerge prepotentemente, il desiderio quasi fanciullesco dell'attesa, della sospensione che ci pervade di fronte alla cosa "meravigliosa", al thaumatos.

"Magnifico, una visione meravigliosa, un tremendo display, glorioso, così meraviglioso, che qualcuno potrebbe avere timore di parlarne..."

Con infantile stupore Tesla anticipava, con queste parole, la sorte che lo avrebbe accompagnato sino alla fine dei suoi giorni. Non è la genialità di Nikola Tesla che sorprende, è il metodo con il quale procedeva alla risoluzione di problemi scientifici complicatissimi, è lo stupore che manifestava di fronte al risultato.

Le sue invenzioni provocavano un senso di straniamento, la sua era una lotta contro l'identificazione: "Osservavo con piacere che potevo visualizzare con grande facilità. Non avevo bisogno di nessun modello, disegno o esperimenti. Io potevo dipingerli tutti come reali nella mia mente. Appena uno costruisce un'apparecchiatura per realizzare praticamente una pura idea, si trova inevitabilmente impegnato a definire i dettagli dell'apparecchiatura stessa. Come lui procede con i miglioramenti e la costruzione, la sua forza di concentrazione diminuisce e rischia di perdere di vista i principi fondamentali. Il mio metodo è diverso. Io non mi precipito sul lavoro vero e proprio. Quando ho un'idea, comincio per prima cosa a costruirla nella mia immaginazione. Cambio la costruzione, opero miglioramenti e metto in funzione l'apparecchiatura nella mia mente. È assolutamente eguale, per me, sia che faccia girare la mia turbina nel pensiero sia che la provi nel mio laboratorio. Non c'è differenza alcuna; i risultati sono i medesimi. In venti anni non si è verificata la minima eccezione".

Il suo stupore non aveva nulla a che vedere con la fascinazione, piuttosto si riconciliava con la quotidianità trasformandola da qualcosa di ordinario a qualcosa di straordinario. Il suo stupore, non è mai solo pura sorpresa, ma sempre anche risposta. L’eccezionalità della figura per noi, sta nel fatto che Tesla anticipò sempre l'etica all'invenzione, alla realizzazione tecnologica.

E in questo mondo asservito alla logica dello scambio, al ritorno dell'investimento, Nikola Tesla appare, proprio dall'alto dei suoi 1000 brevetti, come una delle poche figure, forse l'unica, che scelse di agire, in campo strettamente tecnico, nella direzione che lo avrebbe portato a realizzare esclusivamente apparati destinati al miglioramento delle condizioni di vita dell'uomo.

La storia di Nikola Tesla inizia nel 1856, quando il colpo della mezzanotte tra il 9 e il 10 luglio chiamò alla nascita un figlio nella casa del Reverendo Milutin e sua moglie, Djouka, nel piccolo villaggio croato di Smiljan.

Termina il 7 gennaio del 1943, a New York. In una camera d'albergo. Solo. Il giorno seguente l’FBI apporrà i sigilli Top Secret. E così è stato per i successivi 40 anni.

Tesla ricordava sempre ai suoi assistenti: Una nuova idea non deve essere giudicata dai suoi risultati immediati. Alla luce della conoscenza attuale, vorremmo che questo incontro fosse avvenuto già da molto tempo.

In realtà si è trattato di un imbattersi fortuito. E di questo dobbiamo paradossalmente ringraziare un altro pioniere dell'elettricità, suo strenuo avversario.

Nel 1999 preparavamo lo spettacolo Eva Futura dall'omonimo romanzo dello scrittore francese August Villier de l'Isle Adam. Questo romanzo, vede come protagonista Edison. Conosciutissimo negli Stati Uniti, la fama del mago di Menlo Park arrivò in Europa legata soprattutto alla sua lampada ad incandescenza. Nel romanzo di Villier, Edison è l'inventore di un androide, sorta di replicante elettromeccanico di una bellissima Alicia. Ma ancora una volta l'avvicinamento al romanzo non è dettato da un mero interesse per questioni tecnicoscientifiche, infatti, utilizzando la metafora dell'androide, che verrà sostituita alla vera Alicia, Villiers porta all'estremo limite la riflessione sulla sincerità delle relazioni umane.

Come è nostro costume, all'esame del romanzo accostammo uno studio parallelo approfondito, da una parte su quello che è un aspetto specifico della relazione interpersonale, esaminando la figura dell'isteria, dall'altra, andando a fondo sulla figura del protagonista del romanzo: Edison. E da queste ricerche emerge Tesla. Quasi dal nulla. Perché? Fino ad allora, per noi "Tesla" era unicamente l'unità di misura di una grandezza elettrica.

Lo studio su Edison ci portò ad indagare su quella che negli Stati Uniti fu chiamata la "guerra delle correnti", sorta di battaglia che vide la corrente continua di Edison contrapporsi alla corrente alternata di un "certo" Tesla.

Iniziammo uno studio parallelo su questa figura. Veniamo a sapere che nel 1943 la Corte suprema degli Stati Uniti revocò il brevetto dell'invenzione della radio a Marconi, per attribuirlo a Nikola Tesla. Sui dati di targa della prima Centrale idroelettrica al mondo alle Cascate del Niagara, è scritto che sette dei nove brevetti utilizzati sono di paternità di Nikola Tesla. L'invenzione del primo motore a corrente alternata porta il brevetto di Nikola Tesla.

A Colorado Spring nel 1899 Nikola Tesla riesce a produrre un fulmine lungo circa 200 metri. Quel fulmine colpì anche noi.

Se Nikola Tesla fosse stato anche soltanto ciò che abbiamo appena detto sopra, perché non c'è traccia di lui? Qui inizia la nostra avventura alla ricerca di Nikola Tesla. Ed ecco apparire all'orizzonte "the problem of increasing human energy", straordinario scritto che sembra anticipare, quasi profeticamente, tutte le problematiche che tutt' ora affliggono

l' umanità.

Poi, la sua autobiografia: emerge una storia fantastica, è il resoconto di una vita così densa di eventi straordinari, che nessuno penserebbe non fosse meritevole di un riconoscimento eterno ed esteso; tuttavia è anche il racconto della soppressione cosciente e maligna da parte di coloro che avevano un preciso interesse a relegare il nome e la memoria di Tesla ai rottami della storia.

Alla luce della conoscenza della sua vita, del suo approccio cognitivo, della sua fede nelle possibilità di un progresso continuo e costante dell'umanità, nella sua fede nell'uomo stesso, si può certamente affermare che Nikola Tesla era un grande uomo e se è indubbiamente vero affermare che fu uomo di scienza e di invenzione, ciò corrisponde comunque a descrivere la scalata dell'Everest semplicemente come la scalata di una montagna alta.

Nikola Tesla era un rivoluzionario nel senso più puro della parola. "Tesla non vuole lasciare niente, lascia solo Tesla: non figli perennemente custoditi, illusoriamente protetti ­ ma soggetti filosofanti davvero soli ­ cioè costretti a pensare ciascuno per sé."

"Lo sviluppo progressivo dell'uomo è direttamente legato all'invenzione. Essa è il prodotto più importante della sua mente creativa. II suo scopo ultimo è il dominio completo della mente sul mondo materiale, l'imbrigliamento delle forze della natura a necessità umana. Questo è il difficile compito dell'inventore che è spesso male interpretato e non remunerato. Ma lui trova ampia compensazione nel piacevole esercizio dei suoi poteri e nella consapevolezza di appartenere a quella classe privilegiata senza la quale la razza umana sarebbe già da tempo scomparsa nell'amara lotta contro gli elementi naturali.

Parlando di me, ho già pienamente goduto di questo squisito piacere; tanto, che per molti anni la mia vita è stata segnata da continue estasi. Sono stato considerato un indefesso lavoratore e forse lo sono, se pensare è equivalente a lavorare, io ho dedicato ad esso quasi tutte le mie ore di veglia. Ma se per lavoro si intende una ben definita attività in un tempo specifico, secondo una regola rigida, allora io posso essere considerato il peggiore degli oziosi. Ogni sforzo sotto coercizione richiede un sacrificio di energia vitale. Non ho mai pagato un tal prezzo. Al contrario, io ho prosperato sui miei pensieri."

Marcia pure sui fondi, il grande Euro si piega al pozzo di colei che, usurpatrice patetica del nome del poeta e se ci fu mai nome così da lei lontano, non teme, ah vergogna!, di proferir scempiaggini dalla terra che oramai del parmigiano ha solo il profumo lontano. Giunto così nei pressi della porta, parcheggia l'auto, si lascia alle spalle via del Portonaccio ed affianca Via Orto del fuoco. Al numero 3 domicilia il teatro. Paga un modesto biglietto. In cambio la ricevuta SIAE ed un foglio. “Legge 33

Una lingua necessaria fra una lingua e l'altra, un linguaggio comune a tutte e due, ma in qualche modo imprevedibile rispetto ad ognuna di loro.

Édouard Glissant, Poetica del diverso

 

Postanovšcik”

Registrazione fedele dei movimenti della mente di un uomo alle prese con uno spazio vuoto. Davanti a lui una parete bruciata, arsa dal fuoco.

Aspetta. Si siede a terra e guarda. Il treno delle vite che si affacciano sul quel luogo corre veloce, binari paralleli in incessante allontanamento. Sembra quasi che quella parete non sia immobile bensì fugga indietro con una lentezza vertiginosa. Lontano dalla realtà. Egli ben sa che il suo agire non gli serve per farsi conoscere al mondo, quanto per conoscerlo.

Manda pattuglie in avanscoperta, crea avamposti in un territorio che, se dice non può essere nemico, ha certo regole diverse, logiche altre. Dove troverà la forza, questa volta, per attivare relazioni con altre figure e con altri materiali?

Di chi sto parlando? Mi sposto di pochi millimetri al giorno. Non mi appartengo di certo. L'uomo del racconto diventa l'uomo che racconta. E aspetta. Una porticina si spalanchi. Ha pazienza. La pazienza dell'incauto, del successivo.

Un attimo si compone, infiniti attimi, un secondo. E già sembra una eternità. Lavora nelle acciaierie con 20000 Hz nelle orecchie per avere il consenso della scoperta. Viaggia per uomini, lui che aborrisce il consesso umano.

Li trova sui marciapiedi, nelle casematte abbandonate, dove il fumo fatica ad uscire, si siede in mezzo a loro, non visto, quasi mai calpestato, sempre annusato. Lascia una scia riconoscibile, da chi? Mai si commuove, aspro com'è con se stesso.

Ma le tre oche aspetteranno. Nel campo l'uomo ha visto una cassa. Vi mette le mani di fango, allaccia nodi alle gambe.

La donna nuda si mostra, la fenditura si è aperta e lei corre veloce, sospinge le oche oltre la linea, fino alla stanza bianca. Scompare. La cordicina tira la nuca, il corpo compie una rotazione. È lì, un martello in mano, due chiodi. Le gambe si flettono, una caduta verso il basso, il bacino raccoglie le spoglie del busto e le conduce a terra. L'avambraccio si inclina, permette il contatto. Altre torsioni lo portano sui binari. Il midollo osseo è schiacciato dal peso insopportabile del corpo?

Il fardello del testo lanciato dall'altro lo offende, si scuote e cade sempre più in basso. L'ossessione di un pensiero.

Del pensiero. Fatto di carne? Pensieri di carne, carne fatta di pensieri. C'è qualcosa che incalza. Il carnefice è pronto per il

colpo..

E il loop si avvia. Trascinato dalla descrizione di ciò che accade, incline al suicidio per sempre se ne allontana, al teatro concede la parola estrattore ben sapendo di lanciare a voi e a se stesso il dardo dell'illusione. Eppure è questo che lo muove, che sposta macigni in vece sua, li colloca sulla vetta e li scaglia come fulmini. I passanti si voltano, non toccati, ignari. Tu ci sei? Usa pure quei così­così, fanne ciò che vuoi. Ma non li avrai mai. Soffre del dialogo, della comunicazione simulata, apre se stesso al movimento come parola non detta, solo pensata e scende verso la terra come appoggiato ad un declivio. Una foglia cade dall'alto, sfiora la sua schiena e diviene mano senza braccio, sostegno invisibile per la sua caduta. Gli occhi della figura al tavolo lo portano, trasfigurata dall'estasi della ritrovata realtà, lei che aspetta intere settimane, come senza vita, quell'attimo, quel luogo, incolmabili dalla passione di un esistere che la coglie. Levita il suo corpo, i piedi non sfiorano la terra, la sua voce pare entrare in essa ed uscire da mille fori, dai pori della pelle. La bocca quasi vuota.

È il momento di appoggiare il polso sul terreno, prepara il corpo a rivoltare se stesso. Dove mi trovo, ora? Sul palcoscenico? Passa l' avambraccio davanti agli occhi. Tutto scompare. Devi tornare indietro... e lui va all'inizio.

Vive (esiste?) dei propri pensieri. La stanza visiva. È tormentato dal fatto che tutto sembra dirgli che egli appartiene alla stanza visiva ma che la stanza visiva non gli può appartenere. Orbene, egli vuol dimostrare a se stesso che il suo è l'unico sguardo possibile. Come potrebbe altrimenti entrare in quello spazio vuoto, da dove potrebbe trovare la forza per iniziare l'immane fatica che questo comporta? Egli ha ben presente l'esperimento di Cartesio sull'occhio, come d'altra parte è vivo in lui quello analogo condotto da Wittgenstein. È a questo punto che egli introduce un terzo esperimento, fittizio.

Ma la luna esiste se non la si guarda? Naturalmente la luna esiste, ma questo naturalmente chi lo ha detto? La freccia scoccata scomparendo oltre il limitare del bosco, esiste? Perché il Postanovscik, fa entrare in gioco questa domanda?

La stanza visiva è la totalità degli sguardi; un soggetto pone il suo occhio verso il mondo e ha uno sguardo del mondo.

Lui raccoglie uno dei possibili sguardi; allora, in questo senso, la stanza visiva che è il mondo della visione, ci ingloba, cioè noi apparteniamo ad essa ma essa non ci può appartenere, perché il nostro è solamente uno dei tanti sguardi possibili.

 

Con la domanda ­ la luna esiste solo se la si guarda? ­ egli annulla la certezza (frutto dell'abitudine) dell'esistenza degli oggetti che noi non possiamo percepire, mette in dubbio la stessa esistenza degli altri possibili sguardi.

Fa diventare il suo l'unico sguardo possibile. Egli è conscio di abitare un'illusione. Giorno dopo giorno ne cerca di rafforzare l'immagine.

Conduce esperimenti per dimenticare l'origine illusoria del proprio agire. Ed elabora strutture di relazione che gli permettano di dimenticare che ha dimenticato. Mette le fondamenta per la creazione di un'altra realtà. L'abbandono definitivo della simulazione lo raggiunge nel momento in cui riesce ad affermare che il mondo in cui vive è una prigione. E si predispone con tutte le forze per abbandonarlo. Si mette nella condizione dell'attesa. E nella sua mente alberga un altro pensiero. Considera la nozione di visione e il suo occhio vede pensieri, sente la presenza di un pensiero­occhio che lui dice vedersi nell'accadere che tenta di descrivere. Qualcuno gli dice che in realtà vediamo, ossia percepiamo e sentiamo, sempre e solo esempi. E di questo lui ne fa la via per procedere. Stabilisce la regola da infrangere. Quando, già da molto tempo ha visto con chiarezza nello Stalker di Tarkovskij e in quello dei fratelli Strugatski la possibilità dell'esempio, ripensa a quella porta a vetri che separa il luogo della visione da quello dell'attesa, vede un uomo separato dall'altro, il luogo della scena e il luogo dello spettatore, vede una porta, l'ostacolo, e vede un occhio del mondo affiancarsi al luogo che dell'agire fa il suo occhio.

La porta che si spalanca e la tribuna che avanza leggera sui binari sono la necessità solida di conferma dell'accadere del pensiero, del desiderio, dell'abbandono. Fatto che anticipa se stesso, che matura nel suo finire. Non c'è più tempo.

Il nostro treno è arrivato. Già lei è sulla soglia. Il tritacarne la avvolge. Si difende come può. La porticina si apre. E noi siamo con loro. L'impossibilità di essere lì. Lo stalker pone il braccio sul piatto di una stadera. Che non c'è.

I pesi sono sorrisi, ansie, fatica, ricordi.

Veniamo strappati da quel luogo, semplicemente allontanati. Come vorrebbe restare lì, con loro. Qualcuno lancia un dado. Pareti si aprono, un portale avanza e fissa il limite dell'azione. Ed Arthur sale la collina, l'altra figura, in piedi, col viso rivolto altrove. Sguardi senza tempo. Gli occhi chini a chiedere un inizio.

Perché debolezza è forza e potenza è niente.

Ascolta, lui, che non è con loro. Sull'asse di quel tavolo da dissezione, dietro la scena. A fianco ha una cucitrice ed un parapioggia. È al buio. Le luci sono oltre. Su quel letto di solitudine e morte la sente scendere dalla collina, i passi dell'incontro, la voce strozzata sul nascere. Felicità, felicità per tutti. Nessuno uscirà di qui insoddisfatto!

D'altra parte non posso fare a meno di vivere dei miei pensieri. Sono lì, dentro la mia opera e vivo con essa, senza di essa non sarei. "Oh, di quale meravigliosa esistenza posso essere dotata, se hai la semplicità di credermi; se mi difendi contro la tua ragione... Io propongo ai mortali di questi tempi nuovi ed evoluti, di preferire ormai alla menzognera, mediocre e sempre incostante Realtà, una positiva, prodigiosa e sempre fedele Illusione. ­ A sentire lei, caro Edison, si potrebbe credere che questa Andreide abbia la nozione dell'Infinito, ­ mormorò Ewald. ­ Ha infatti soltanto quella, rispose gravemente l'ingegnere, ­ma per assicurarsene bisogna interrogarla. ­ "lei che non è neppure un essere vivente, sente così forte la vita."

L'avambraccio oltrepassa lo sguardo e cade. All'inizio. Non è tutto. Possiamo allora fare un esercizio, guardiamoci attorno, poi vi farò una domanda. Prosegue lo sguardo, nell'agire che rende il pensiero solidamente. Si diverte e a volte capisce.

 

Rotolo sulle mie parole. Ecco quelle di qualcuno che ha visto.

 

Postanovšcik, titolo del nuovo lavoro di Masque Teatro, è un termine russo, utilizzato anche da Ejzenstein e Stanislavskij per indicare "colui che sente la forma dello spettacolo" in contrapposizione al régisseur, ossia colui che conduce il lavoro con gli attori.

Lo spettacolo inizia con una porta chiusa. È il portone dell'Orto del Fuoco, sede da due anni di masque, luogo in cui la compagnia quotidianamente lavora, ex filanda e oggi officina, capannone, ufficio, cucina. I pochi spettatori ­ quindici sono le persone ammesse a ogni replica ­ aspettano finché qualcuno apre loro il portone. Dentro c'è un'altra porta, oltre la quale si viene guidati dalla luce di una torcia fino a una piccola tribuna montata su binari.

Il buio, l'intuizione di un mondo ammalato, infetto, e la traballante stabilità della tribuna che ne prelude all'avanzamento hanno il sapore di certe giostre di lunapark, così come la razionale consapevolezza di essere al sicuro accompagnata da una sensazione di pericolo, di attesa emozionata e ansiosa. Davanti alla tribuna sta una grande vecchia porta a vetri; dietro vi è un letto, oltre il quale cominciano a intravedersi, in una luce molto fioca, attori che eseguono il loro training. Poco dopo, tre di loro vengono accompagnati nel letto: sono un uomo e una donna e, in mezzo a loro, una figura più giovane, loro figlia.

In qualche modo, lo spettacolo ­ uno dei livelli che coabitano lo spettacolo ­ inizia qui, quando l'uomo si alza, oltrepassa lentamente la porta a vetri e scompare oltre una porticina laterale lasciandola socchiusa.

Di lì a poco lo segue la donna: giunta di fronte alla porta, inizia a parlare a quella che è ormai pura assenza, l'uomo che ancora una volta se ne sta andando, richiamato inesorabilmente dalla Zona: stiamo assistendo alla citazione di una delle scene iniziali del film Stalker di Tarkovskij.

Sul finire della scena, mentre la donna si getta a terra in preda alla disperazione, una piccola luce ci permette di vedere, molto oltre la porta a vetri, su di una pedana rialzata, due schermitori ­ un uomo e una donna ­ che gareggiano: immagine bellissima di un conflitto deciso da regole ferree, che vedrà un vincitore e un vinto, ma che per sua stessa natura non è mortale.

La tribuna intanto inizia lentamente ad avanzare, incombendo sulla donna che scivola via.

La porta a vetri si apre, il letto (su di esso, ora seduta, sta l'attrice­bambina, lo sguardo perduto e per questo inquietante) retrocede, come chiamando dietro di sé, con forza magnetica, il pubblico.152

Poi scompare dietro una pesante porta metallica che scende a soffietto dall'alto: barriera oltre la quale non è dato agli spettatori, per ora, di entrare. La porta, che nel cigolio sembra vivente, si fa fondale per due azioni, che si svolgono ai suoi lati. Da una parte, sta un corpo composito, formato da un ombrello nero e una vecchia macchina per cucire tra i quali, sdraiato su di una tavola di legno, un uomo.

Ha uno strano abito femminile, rosa, a balze. Dall'altra parte c'è un tavolino metallico, rotondo: richiamo puntuale al tavolo di bar al quale, in Stalker, lo Scienziato e lo Scrittore hanno appuntamento con l'uomo che li condurrà nella Zona.

Due figure sono attorno al tavolo. Dialogano. Mentre un rumore di macchina per cucire si fa sempre più fastidioso, arrivando a sovrastare le loro parole, l'uomo con l'abito rosa, che ora intuiamo possa essere il Postanovšcik del titolo, si spinge faticosamente ­ i gesti sempre come trattenuti o spezzati, una sofferenza quasi fisica che sembra percorrerlo e non concedergli tregua­vicino a loro, e a ciascuno conficca, con un martello, un chiodo nella schiena.

Il suo gesto sembra inceppare un meccanismo, generare una sorta di loop nelle loro parole, che ora si ripetono e diventano intercambiabili, in un girotondo impazzito di discorsi senza senso: immagine feroce della vacuità di ogni discorso, sia esso di arte o di scienza, quando le discipline diventano maschere sottili dietro le quali riparare le proprie pudendae.

A interrompere il loro meccanismo, di per sé dotato di moto perpetuo, è l'arrivo, alle loro spalle, dello Stalker, che annuncia l'arrivo del treno che li porterà nella Zona. Lo Stalker compare all'interno di quel che potrebbe essere lo scheletro di un ascensore, e da esso trascina verso il fondo il piccolo tavolo, installato su binari, e i due compagni di viaggio. Ormai invisibile dietro il fondale, lo Scrittore pronuncia un monologo, che racchiude in sé una delle ferite dell'opera: parla dei critici (e degli spettatori?) e di come essi divorino, ciechi, tutto ciò che l'artista sa tirare fuori dalla propria anima. È un grido di dolore, voce senza più volto che risuona e riempie di sé il mondo che ci ha accolti, atto d'accusa che investe il pubblico della sua radicale e dolorosa alterità.

La barriera metallica che era scesa a fermare l'avanzamento della tribuna ora si rialza, e si avvicina al pubblico un portale di legno, con una porticina bruciata al centro. Accanto al portale, lo Stalker appare ora estremamente stanco mentre, appoggiato al legno scabro, pronuncia una breve poesia e crolla poi, come mortalmente vinto forse dalle sue stesse parole.

La porticina bruciata ora si apre e, prima di richiudersi di scatto, lascia intravedere, in pochi lampi di luce, l'immagine splendida e fuggente di una donna, nuda, che corre dietro a delle oche. Il Postanovscik prende sulle proprie spalle la porticina e la porta via, spalancando al contempo il portale di legno; si avvicina alla tribuna degli spettatori e la sospinge in avanti, fino alla stanza quadrata al cui interno gli attori, ora "indifesi come bambini" si esercitano, insegnandosi 1' un 1' altro a tirare di scherma, osservandosi, scherzando, a tratti inconsapevoli di quel che stanno facendo, luminosi come cuccioli animali. Postanovscik (che è sulla scena Lorenzo Bazzocchi, regista della compagnia) attraversando la stanza dice loro: "Fate come volete". È questo il cuore, non solo fisico, dello spettacolo: al pubblico è concesso di essere testimone di un'intimità che di norma gli è negata ­ e che non coincide neanche con il fuori scena, ma è qualcosa di più delicato, come un momento di metamorfosi ­ ed esso si scopre, per un attimo, a desiderare di essere lì, con gli attori, mentre il proprio statutario voyeurismo diventa fardello. Gli attori retrocedono poco dopo, uno per uno, in una stanza molto piccola, cubo minuscolo e luminosissimo: pronunciano parole l'uno all'orecchio dell'altro, si strattonano, ridono. La tribuna intanto viene risucchiata all'indietro, mentre nella distanza quel cubo diventa un quadrato, splendente e per sempre interdetto se non alla visione. Gli attori, ancora scherzando, avanzano, per poi subito ritrovare l'atteggiamento vigile che la Zona richiede loro. Lo Stalker siede su di una piccola collina di sabbia e, affiancato dal Postanovscik, lancia dall'altra parte della scena un dado metallico cui è legata una striscia di tessuto bianco: è il metodo che il personaggio di Tarkovskij utilizza per determinare la strada da percorrere o da evitare. A1 richiamo dello Stalker, una figura, dal fondo, corre su di un'altra piccola collina, di ghiaia, e vi si sdraia.

Lì, come incerta prima di gettarsi nella discesa, pronuncia stentatamente il proprio desiderio: "Felicità per tutti! Nessuno uscirà di qui insoddisfatto".

Ma la sua corsa è intercettata da due figure, suoi stessi compagni di scena, che sollevano l'esile corpo e lo lasciano poi ricadere, inerte, per terra. La tribuna retrocede ancora, fino alla sua posizione iniziale, accompagnata da uno sguardo, triste e carico di meravigliosa e meravigliata umana compassione, dello Stalker.

Se per poter scrivere di Postanovšcik è stato necessario ripercorrerne per intero l'andamento, è perché lo spettacolo si pone come flusso continuo che rivela solo al suo interno il proprio fluire ­ ed è forse una ulteriore citazione di Stalker, a proposito del quale Tarkovskij scrive di aver lavorato "come se tutto il film consistesse di un'unica inquadratura". Postanovšcik costituisce un mondo autonomo, governato da regole implacabili che si impongono con l'autorità di leggi naturali.

La sua morfologia è quella di uno spazio esploso, una terra post­catastrofica, con schegge di materiali e di senso sparse ovunque, crepe insanabili a squarciarne la superficie visibile. La sua natura residuale e frammentaria fa sì che la costruzione scenica trovi compimento solo nella sua relazione con la tribuna, occhio collettivo che richiama la possibilità di sguardo della telecamera nel cinema, quell'occhio­bestia (Deleuze) che il Postanovšcik tenta di addomesticare, predeterminandone movimenti e prospettive. La sua scelta è quella di un confronto tra due esseri viventi polimorfi: l'occhio­bestia collettivo della tribuna da un lato e, dall'altro, una scena che continuamente lo attira e lo respinge, lo eccita e lo frena nel suo aprire e chiudere porte, nel suo creare e interdire possibilità di avanzamento.

Masque si misura in questo senso anche con se stesso, rinunciando alle macchinerie meravigliose (proprio nel senso della meraviglia) cui ci ha abituati, per giocare con strutture più tradizionali: pareti che a vista strutturano e destrutturano spazi abitati dalla forte dimensione attoriale, finora non praticata dalla compagnia. È invece comune agli spettacoli precedenti il carattere metaforico dello spazio scenico, che si dà come territorio di un confronto tra il teatro e il suo contesto.

La Zona di Postanovšcik altro non è che l'immagine concreta di quella possibilità di esistenza che il teatro offre, con le sue regole anche spietate, con i suoi trabocchetti tutti mortali, con la crudezza della sua verità.

Se nel film di Tarkovskij la meta era la stanza in cui viene realizzato il desiderio intimo di chi la raggiunge (i tre protagonisti vi giungono ma decidono di non entrarvi, perché finalmente consapevoli di quanto sia pericoloso confrontarsi con la propria vera natura), qui essa è il luogo in cui gli attori possono "fare come vogliono", ancora contraddistinti dalla dignità che la scena richiede loro eppure liberi nell'agire. Ma lo spettacolo non si chiude qui, su questa possibilità di esistenza forse dolente eppure pacificata. L'ultima scena, tratta questa volta non dal film ma dal romanzo che lo ha ispirato (Pic­nic sul bordo della strada, dei fratelli Strugatskij), è sotto il segno di una sconfitta: l'estrema difficoltà nel pronunciare il proprio desiderio prima e lo strozzamento mortale della corsa poi sono immagine dell'impossibilità non solo di quella "felicità" inutilmente invocata, ma anche di una corrispondenza dell'uomo con se stesso. Lo spettacolo tutto si fonda d'altronde su di una stratificazione, in cui la forma che si vorrebbe definitiva è continuamente interferita da altre immagini, dettagli che la disturbano o la contraddicono: l'opera è così una sorta di fossile, che porta inscritte in sé la memoria di diverse ere e di profonde trasformazioni.

Ed ecco che quel che poteva essere un percorso cronologico nel processo di creazione si fa magma in cui si confondono i diversi momenti del lavoro creativo (e non è forse un modo per dire che il tempo della creazione è estraneo a ogni consequenzialità e intimamente extra­ordinario?) e il regista­Postanovšcik si confronta con le proprie aporie e le proprie idiosincrasie, con quell'altro che alberga nel sé, con le chiusure e i rifiuti che la propria visione estetica implica.

Il confronto con la propria parte oscura si fa allora scelta estetica e teorica di messa in discussione delle proprie modalità operative assodate, e il viaggio cui al pubblico è dato di assistere sembra non essere altro che quello affrontato dalla compagnia nel suo spingersi oltre i propri confini e i propri limiti conosciuti, scardinando a mani nude il proprio mondo.

“ Immaginare di percorrere uno spazio di tempo infinitamente piccolo, significa scontrarsi con la finzione, ovvero con ciò che trascende gli schemi di una diretta rappresentabilità dell’evento, governata dal principio del limite.

Eppure è proprio la finzione, ovvero quello che non c'è, ad avvicinarci alla conoscenza, a ciò che si presenta come un fatto certo e incontrovertibile.

Queste le parole che Cupido rivolge a Saint'Ange, in Saint'Ange. Filosofia nel boudoir”

 

Bottirolì Silvia,

Lo sguardo, tra ferocia e timidezza, inedito 2004­

Dopo aver costruito macchine desideranti dai presupposti scenici decisamente sbilanciati verso la creazione di opere visive feticistiche, anticomunicative e autofagocitanti, il Gruppo di Lavoro Masque Teatro torna ad esplorare il pensiero per mezzo della parola detta. Se il diaframma corporeo dell'attore veniva inglobato nell'architettura dello spazio scenico in quanto protesi organica, prolungamento di senso e materico all'interno di congegni elettronici e di sovrapposizioni cromatiche che ne definivano il divenire estetico e la poetica, oggi nel lavoro del Masque si avverte l'esigenza di formulare conflitti narrativi ripartendo dal mondo interiore dell'attore. La parola, dunque, ne motiva lo stato di disagio e di inconciliabilità recitativa, ma al contempo si avventura nello scavo di quella condizione instabile; sia dal punto di vista formale, che di aspirazione esistenziale.

L'attore diventa retore di se stesso, mettendo in gioco il proprio ruolo nel sistema della comunicazione artistica, e in questo senso, il dubbio è se si tratti anche di una questione di responsabilità dell'arte ad essere in gioco. Dallo svelamento al dubbio, alla fiction.

Gli spettacoli che hanno segnato un preciso gusto del paradosso estetico, vedi le gabbie postindustriali di Coefficiente di fragilità e di Nur mut, lasciano il passo al salotto della retorica teatrale I vapori della sposa. Lo sguardo precipita, annulla orifizi, tracciati cunicolari, cellette e involucri di un posticciato scenografico che "ornava" lo spazio di testimonianza per lo spettatore, ovvero le cabine voyeristiche e l'involuto erotismo ottico di Coefficiente, la meccanica antipsicologica di Nur mut: si nega lo spettatore, pur assecondandolo, e si stabilisce una relazione dialettica tra attore reale e attore virtuale. La scena del Masque cambia prospettiva.

Contrae l'evocazione duchampiana degli spettacoli precedenti, costruiti cioè per espansione o dilatazione dei rapporti di forza che si vanno a creare tra l'oggetto e l'azione, per ridefinirsi nella forma di un'icona, dove oggetto e azione sono strumenti del sé e della propria in­consistenza osservati da angolazioni esterne e contrapposte; per cui saltano i termini frontalità e percorso rispetto ai possibili modi di guardare o di entrare nella scena da parte dello spettatore. I vapori della sposa, d'altronde, mette a fuoco un frammento dell'opera Il grande vetro di Duchamp che aveva già ispirato Coefficiente di fragilità, e trasforma lo spazio scenico in un corpo unico, una casa­mondo o mondo unitario privo di salti e fratture. Le immagini video realizzati da Monica Petracci per gli otto monitor posizionati sui due lati ­ quattro a parete ­ della struttura ovale che ospita gli spettatori, ritraggono l'interno e l'esterno di Saint Ange, personaggio che afferma se stessa mentre si nega in La philosophie dans le boudoir di Sade. Mi guardo mentre osservo il mio personaggio agire, sembra dire. L'lo teatrale e quello dell'artista come prefigurato nel Teatro analitico esistenziale di Bartolucci e Mango, oltre a ritrovarsi sullo stesso terreno di continuità tra vita e pensiero (l'azione e il suo significato coincidono nella forma), si manifesta riaffermando l'impossibilità a stabilire la veridicità della realtà.

Lo spettacolo è quindi costruito come un sistema barocco di illusione svelata, congegni della finzione che stanno lì ad affermare il paradosso della rappresentazione che mostra una situazione, ma allo stesso tempo la nega. Il procedimento è quello di un discorso del teatro sul teatro per parlare del dubbio come concetto esistenziale.

Il teatro si guarda nell'atto del mostrarsi. È l'immagine di Saint Ange che invita ad accomodarci e a lasciarci andare su una specie di sedia anatomica, una di fronte all'altra, posta a perimetrare l'ovale, e che in un primo momento sembra predisporci ad un viaggio del piacere. Ma per Catia Gatelli e Lorenzo Bazzocchi (autori e attori del Masque Teatro) l'utilizzo dell'eros in Sade si lega inscindibilmente al concetto di impossibilità di Zenone: Saint Ange parlando di eros crea contemporaneamente il dubbio su ciò di cui si parla. Allo stesso modo, l'estasi erotica del personaggio di San Sebastiano, incastonato in una nicchia su un piedistallo che gira lentamente per tutto il tempo dello spettacolo, è la rappresentazione del dolore nel suo farsi godimento spirituale. Il boudoir è espressione del dubbio, una continua sottrazione di senso; quella sottrazione messa in atto da Saint Ange quando parla della sua realtà dal monitor, e la parola sembra andare verso una direzione (ciò che sta dicendo: "Ma io esisto?"), mentre negli altri tre monitor si intuisce che ciò che sta cercando potrebbe non essere lì, non essere in quelle parole ("Se sarà dimostrata la mia esistenza forse sarà dimostrata anche la vostra"). Lei bleffa e chiede di partecipare al suo gioco (termine che al segno ludico assomma il significato di recita) al personaggio di Cupido, sistemato in un'altra sorta di nicchia diametralmente opposta a quella del San Sebastiano; il dialogo s'impenna cercando l'immaterialtà dello spazio che cerca una ragione per essere compresa, ma è ancora una pura finzione che è fatta di regole e che si ripete continuamente. Il pubblico ha la funzione di stare o non stare a questo gioco. È il gioco dell'esistenza: "ogni volta pur sapendo che non c'è risposta a questa domanda, sono complici di questo gioco perché il dubbio non può avere soluzione". San Sebastiano e Cupido sono figure metamorfizzate, materia ricreata, corpo: nei primi lavori si costringeva quel corpo d'attore ad esibire una gestualità artificiale, reattiva alle parti scenografiche quasi per via osmotica; nel boudoir i vapori della sposa invece, che espone il corpo nella fase di un suo avanzato processo di trasformazione in identità annullata, immateriale, un archetipo figurativo dove ogni rappresentazione, secondo la sua necessaria simbolicità, svela il suo contenuto spirituale usando il paradosso della negazione e il codice inverso della finzione. Ed è ancora Duchamp a rovesciare il linguaggio, preso a prestito dallo stesso Masque, quando dice che il possibile, detto anche virtuale, è situato non come contrario di impossibile, né come relativo a probabile, né come subordinato a verosimile, è soltanto un mordente che brucia ogni estetica e callistica.